L’ad dell’azienda di Istrana uscita dalla Borsa accogliendo nel capitale il fondo Charterhouse: «Acquisizioni di sicuro già nel 2024, ci stiamo guardando intorno soprattutto in Europa».
Un polo internazionale della nutraceutica e cosmetica con Labomar al centro, a fare da aggregatore di filiera. Uscita dalla Borsa lo scorso anno con un’Opa da 60 milioni di euro affiancata dal fondo britannico Charterhouse, l’azienda trevigiana diventa grande (compie 25 anni proprio ora, a fine 2023) e in grande pensa. «Faremo acquisizioni di sicuro già nel 2024, ci stiamo guardando intorno soprattutto in Europa»: la nuova sede Labomar che sta prendendo forma a Istrana è la rappresentazione fisica dell’ambizione e delle idee chiare nella testa di Walter Bertin, fondatore – nel 1998, da farmacista – e presidente. Labomar si occupa di produzione per conto terzi nel campo di integratori alimentari, dispositivi medici, cosmetici, alimenti funzionali: chiuderà il 2023 con ricavi superiori a 100 milioni di euro dai 92 dello scorso anno, che già segnavano un balzo del 40% rispetto al 2021. I dipendenti a livello di gruppo sono oltre quattrocento (cresciuti di una cinquantina dal 2022), più una sessantina di interinali.
Bertin, quella con il fondo Charterhouse è una strada di crescita tracciata?
«Già nel 2012 abbiamo ricevuto capitali per la crescita dal Fondo italiano d’investimento, e lo abbiamo fatto per crescere: abbiamo raddoppiato le nostre dimensioni da lì al 2018 quando a gennaio il fondo è uscito. Nel 2020 siamo entrati in Borsa per finanziare un piano di M&A, fusioni e acquisizioni, lo scorso anno ci sarebbe piaciuto passare al segmento Star ma venivamo poco valorizzati, per questo abbiamo deciso di uscire: abbiamo trovato l’occasione giusta con il fondo Charterhouse».
C’erano tante proposte sul vostro tavolo?
«Decine, ma abbiamo scelto Charterhouse perché ha una marcia in più, è un fondo storico inglese con ottime performance e una squadra giovane e molto capace, piena di passione. Ci aiutano soprattutto sulla parte M&A, hanno ottimi contatti internazionali e noi ora puntiamo molto proprio sull’internazionalità, di fatto già oggi lavoriamo al cinquanta per cento all’estero».
Quello della nutraceutica è un settore molto appetibile, lei vede per Labomar un ruolo da aggregatore o nella galassia di qualche colosso del settore?
«Noi siamo la guida, gli aggregatori, questa è la logica e sarà così anche nel futuro, mantenendo le radici nel territorio. La tendenza alle fusioni c’è, a livello internazionale, e chi può permetterselo lo fa con un ruolo da protagonista. Il rischio di restare piccoli in un contesto del genere non è banale, è concreto: non possiamo permettercelo, io qui devo dare sicurezza alla mia azienda, non posso pensare in piccolo, chi lo fa ha dei grossissimi rischi. Macchinari e tecnologie hanno costi rilevanti, che ti puoi permettere se hai una certa dimensione».
Per Labomar un ruolo di aggregatore di che tipo?
«Noi siamo forti sul liquido, soprattutto, nei prodotti topici, cerchiamo di crescere sul solido: per farlo o costruisci un nuovo pezzo di azienda, o ne compri una che già lo fa: a Montreal abbiamo scelta questa seconda strada, Usa e Canada sono bei mercati. Cerchiamo di completare la filiera della fornitura, in Toscana abbiamo rilevato un’azienda di materie prime, Labiotre, che le estrae dalle piante, un’altra a Orvieto, Welcare, che si specializza nei prodotti per persone ospedalizzate, tessuti non tessuti sterilizzati per la pulizia delle ferite, un mercato diverso rispetto al nostro tradizionale. Ricerca e controllo della filiera sono punti chiave».
Geograficamente avete un obiettivo per le prossime acquisizioni?
«Francia, Germania, Inghilterra, Spagna, Est: l’Europa è un mercato grosso, e se trovi qualcosa di già strutturato bene e che ti piace…».
Vi siete dati un timing?
«Prima compriamo meglio è, ci siamo dati degli obiettivi, fa parte del passaggio al fondo: nel 2024 qualcosa compreremo di sicuro. Ma io sono un po’ delicato, e dipende da me: faccio aggregazioni industriali solo dove vedo un imprenditore e persone sorridenti».
Il sorriso come parametro?
«Anche nella mia azienda: è fondamentale che le persone siano a proprio agio e abbiamo un atteggiamento positivo. Negli ultimi due anni abbiamo cambiato l’ottanta per cento del management, volevo persone più empatiche, sorridenti, che si facciano voler bene. Il primo colloquio lo faccio di persona e non parlo di lavoro, ma di vita: al secondo arriva solo chi sorride, e lo capisci se uno lo fa spontaneamente o no».
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